Esistono memorie
scolpite nel marmo, e ricordi che si dissolvono senza lasciare
traccia alcuna.
Prima dell’avvento della luce elettrica, dell’automobile, della
plastica, del frigorifero, c’è stato un tempo in cui la neve era
l’unica risorsa con la quale potere avere un po’ di freddo durante
il periodo estivo. Anticamente se volevano conservare la carne,
preparare un gelato, o frenare una febbre, non c’era altra scelta
che l’utilizzo del ghiaccio.
La caduta, la
conservazione, il commercio della neve che copiosa nel corso degli
inverni di una volta cadeva in paese e sulle montagne, permetteva
alle vecchie comunità di giovarsi dell’unico refrigerante naturale
disponibile; il ghiaccio.
Oggi a Caltabellotta di tutta questa storia rimangono soltanto gli
sbiaditi ricordi di qualche anziano, e un atto notarile datato 28
marzo 1831.
Il documento, ignorato ed impolverato, giaceva tra le carte dei
sorprendenti archivi di casa Grisafi, fino a quando il proprietario,
il Dottor Francesco, per amici e parenti Cicci, con il fiuto e la
competenza che lo contraddistinguono non vi ha messo gli occhi di
sopra, strappandolo all’oblio cui era destinato.
Il testo, (nella sua forma originale è redatto in un italiano tanto
antiquato da sembrare quasi sgrammaticato), risale al Regno delle
due Sicilie, quando era governato da Ferdinando II di Borbone, e
sottoscrive la stipula di un contratto tra il sacerdote Don Franco
Grisafi, il soldato Giuseppe Caruso, i fornai Vito Picone , Antonino
Cortese e Leonardo Rizzuti residenti a Caltabellotta, e due
cittadini di Sambuca di Sicilia, al secolo, Giuseppe Di Giovanna e
Michele Ferrara.
Le parti contraenti s’incontrarono a Caltabellotta alla presenza del
notaio Pellegrino Ragusa, per dividere i territori limitrofi
Caltabellotta e Sambuca in due distinte sfere d’influenza.
In altre parole si stabilì che il sacerdote Grisafi ed i suoi soci
avrebbero venduto e trasportato la neve a Ribera, S. Anna, Burgio,
Villafranca, Lucca, Cattolica ed altri comuni di là del fiume S.
Carlo, facendo divieto al Ferrara e Di Giovanna “ di trasportarvi
tutta quella neve necessaria senza poter vendere a fossa portare in
detti comuni neve o fargli offerta delle loro niviere”.
Di contro Di Giovanna e Ferrara potevano commercializzare la loro
neve nei comuni di Sambuca, Montevago, S. Margherita, Mazzara,Marsala,
“sala di Paruta”, Menfi, Contessa e “tutti l’altri comuni di là del
vallone di Rinchione, e feudo del Carbo, restando proibito alli
detti reverendo Grisafi e consorti portare neve in detti comuni
fargli offerta o vendere a fossa della loro niviera così di patto”.
Per quanto riguarda Sciacca,- evidentemente anche a quei tempi il
mercato più allettante,- l’attestato recita così; “ li suddetti
reverendo Grisafi e consorti d’una parte e detti Ferrara e Di
Giovanna dell’altra parte devono trasportare nella comune di Sciacca
tutta quella neve che sarà necessaria per smaltirsi in detta comune
cioè una parte detto reverendo Grisafi e consorti della niviera di
questa e una parte detti Ferrara e Di Giovanna della niviera del
primo di detta Sambuca dovendosi egualare a quintale, quale
egualazione deve farsi in ogni giorni quindeci e fatto il conto
quello che ha consegnato meno in bottega deve egualarsi con quello
che ha consegnato di più anche che ne sia crescenza”.
Il certificato, lingua italiana a parte, è senz’altro notevole,
perché documenta uno spaccato di vita caratteristico di una remote
realtà caltabellottese, della quale hanno memoria orale soltanto
persone d’età avanzata.
Il signor Turturici Antonino, classe benemerita 1912, ricorda una
filastrocca; “Pi tutti li santi la “nivi”a li canti, i canti”, un
detto che nella sua semplicità rimarca la presenza costante delle
precipitazioni nevose. Rammenta, poi, che nel nostro territorio
esistevano ben sette fosse utilizzate per la raccolta della neve, le
cosiddette “niviere”, alcune site “narrè la nuvi”, dove, dopo le
nevicate, squadre di ragazzi s’industriavano a farvi arrivare enormi
palle di neve che venivano pagate secondo le dimensioni 1,2, oppure
3 soldi, da un signore che usava a mo di cassaforte un lurido e
capiente sacco di juta. Le nevicate , neanche a dirlo, erano molto
più abbondanti di adesso,
La neve, perciò, riversata nelle niviere, era pestata con i piedi e
compressa, “ammataffata” dicevano. In seguito veniva coperta con uno
strato di paglia e fascine di frasche per evitare che prendesse aria
e si sciogliesse, periodicamente inoltre, la paglia umida era
sostituita con quell’asciutta in modo da proteggere la copertura
conclusiva.
Con l’arrivo dell’estate, infine, il ghiaccio tagliato con spadoni
di legno si sistemava dentro apposite ceste e caricato dai “nivalora”,(traducete
gli uomini della neve), sui muli, che di notte ( per limitare lo
scioglimento ), lo trasportavano nei luoghi richiesti dal mercato.
Molte città e paesi avevano il loro commercio di neve.
A Roma pare arrivasse sopratutto dal monte Pellecchia e dal
Terminillo, a Palermo dalle Madonie, a Napoli dal Vesuvio, a Verona
dai monti Lessini, a Catania dall’Etna naturalmente.
Il signor Vincenzo Randazzo, l’ex impiegato del banco di Sicilia che
tutti conoscono come Pino, ricorda che la raccolta ed il commercio
della neve a Caltabellotta terminarono nel 1929, in concomitanza con
la fabbricazione delle macchine frigorifere.
Attrezzi capaci di produrre 500 chili di ghiaccio in 1 ora.
Propagandato sui giornali in modo eclatante, ” trasparente,
purissimo, durissimo, salubre e igienico”, in realtà il nuovo
ghiaccio artificiale era piuttosto opaco, e tutt’ altro che
attraente. L’epoca del frigorifero iniziava così la sua parabola
perentoria, sulle “niviere” calava il sipario, per la neve ed i suoi
sbocchi commerciali era arrivata davvero la fine. |