“E’ impossibile, forse
addirittura blasfemo, commentare un’opera d’arte. Solo
gli occhi e un determinato atteggiamento mentale possono
collocarci in giusta disposizione davanti ad una tela,
una scultura, un disegno. La parola è non solo
arbitraria ma insolente e ridicola, e rischia sempre di
sovrapporsi a quanto la tela, la scultura, il disegno
dicono. La parola può tradire”. (Marcel Duchamp, artista
francese 1887 –1968, massimo esponente del movimento
Dada)
Nel rispetto di questo enunciato, farò una dovuta
eccezione.
Dedalo, personaggio leggendario della mitologia greca,
architetto, scultore, inventore, uomo di mondo, del
mondo che si è creato attorno, fugge da Atene e arriva a
Creta. Ma anche qui, il nuovo mondo che ha trovato e che
ha contribuito a crearsi mostra delle crepe e gli è alla
fine ostile. Per sfuggire alle ire di Minosse, re di
questo nuovo mondo, costruisce due paia di ali che
dovrebbero permettere a lui e al figlio Icaro di alzarsi
in volo. In volo verso un nuovo mondo, verso una nuova
identità, verso la libertà.
Nell’iconografia classica, spesso Dedalo è raffigurato
assieme al figlio mentre si prepara per il volo o in
volo. Qui paradossalmente [gr. para (contro), doxa
(opinione)] cambia tutto: tema, soggetto e forma. La
struttura del quadro è bidimensionale, piatta senza
prospettiva, per far parlare alla superficie il
linguaggio di superficie che le è proprio e non un
falso, cioè un linguaggio di spazio a tre dimensioni che
(non) è il suo.
Dedalo è seduto sui monti del Kratas a riposar le membra
dopo il lungo viaggio, e al posto delle ali ha delle
scarpe, il contatto con la terra, la nostra terra di
Caltabellotta, e, rivolto superbamente verso lo
spettatore, ne indica il tòpos di Kamikos.
Due soli colori a dare corpo alla forma del trittico: Il
rosso del cielo materico, metafisico e surreale e il
bianco candido dell’albume di un uovo, primigenio, quasi
ad evocarne un ritorno (il mio?) nel grembo materno.
|